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martedì 20 luglio 2010

Da Pietro....nonno gennaro

Cari amici Pietro è diventato inarrestabile con la scrittura....e io coinvolgo sempre tutti voi....è solo che aver detto a una persona in ospedale quasi per scherzo, ma perchè non provi a scrivere anche dei racconti? e avere adesso tutti questi racconti da Pietro che si è dedicato a questa attività essendo felice e sentendosi utile in realtà a me piace molto davvero e allora voglio condividere con gli altri i suoi racconti, a me poi piacciono perchè raccontano storie vere che altrimenti non conosceremmo e inoltre una persona che si apre fa sempre un gran piacere, qua sotto la sua mail e poi il racconto...per farvi capire la gioia che ci mette a scrivere....e pensare che c'è gente con due gambe (lui lo sapete ne ha una sola e è dializzao) che si lamenta e basta...magari perchè non trova parcheggio al supermercato......
Nuvola

Caro Nuvola,
ci ho preso gusto; ti mando il racconto IL BISNONNO GENNARO. Stavolta non ho cercato nei miei ricordi, ma ho vivacizzato una vecchia memoria, che una zia ebbe la saggezza di passare da orale a scritta. Spero che tu lo possa pubblicare, comunque io mi sono divertito e sono contento.
Ti abbraccio,
Pietro Cipollaro

IL BISNONNO GENNARO
La sua storia fu raccolta dalla nipote Matilde ed io, una generazione dopo, la rendo pubblica.

Cipollaro è un nome napoletano denunciante, come tanti, antiche origini contadine. Da Napoli vengono i miei antenati; i miei trisavoli erano buoni borghesi: avevano un bel negozio di tessuti in centro; ancora giovani sposi morirono durante l’epidemia di colera del 1837-38. Il quarto figlio, Gennaro nato nel 1837, si salvò perché era in un paesino fuori città, a balia, come usava allora nella buona borghesia. Nel caos burocratico che seguì il colera, si persero le tracce del negozio; ovvero un tutore d’ufficio molto disonesto si prese tutte ‘e cose, sistemò in un ospizio i 2 orfani maggiori e smise di pagare al “balio”, marito della balia, la retta per il piccolo. Gennarino era cresciuto con la balia, aveva 5 anni e, senza più la sua mamma, lo avevano avviato alla devozione per la Madonna. Il balio già teneva famiglia; poiché il bambino in più era di buon appetito, gli mise una cinta molto stretta, per farlo mangiare di meno; poi, non sperando più di essere pagato, cacciò Gennarino da casa. Che fa un bimbetto in quelle condizioni? Cerca un nascondiglio riparato tra le frasche e sta all’erta, a vedere quando quell’uomo cattivo esce di casa, per tornare dalla balia impietosita, che gli dà qualcosa da mangiare e via di fretta. Durò poco; il balio se ne accorse, arrabbiatissimo urlò alla moglie caritatevole e picchiò il bimbo. Spaventato e piangente, Gennarino capì, che doveva abbandonare quella casa non sua, che doveva cercare un altro posto dove vivere. Gli avevano detto, che i suoi genitori erano morti a Napoli e lui s’incamminò verso la grande città. Arrivò stanchissimo e confuso in quel posto pieno di gente sconosciuta; la balia gli aveva detto qualcosa di religione e dei preti: entrò in una chiesa, si nascose accucciandosi in un confessionale, era duro ma protettivo, si addormentò pregando, sfinito.
Il mattino seguente il parroco lo trovò e s’intenerì a sentire la sua storia di orfanello. La Provvidenza, che ai preti poveri non fa mancare il necessario per vivere, quella volta gli aveva mandato un bambino a cui provvedere; lo mandò da una vedova per la prima assistenza, se ne prese la responsabilità, fece in modo di tenerlo nascosto al tutore, per evitargli il tristo ospizio, col tempo gli ottenne qualche lavoretto da ragazzo.
Gennarino crebbe con un riferimento sicuro: la sacrestia del buon parroco; era grande ormai, aveva un suo alloggio in una soffitta; da dove udì le cannonate, che non impedirono l’ingresso trionfale di Garibaldi a Napoli il 7 novembre 1860, mentre il Re Franceschiello era corso a rifugiarsi nella fortezza di Gaeta.
Gennaro era diventato un giovanotto alto, robusto; istruzione poca, il parroco lo aveva fatto assumere come operaio della ferrovie, settore in sviluppo dopo l’inaugurazione nel 1839 della Napoli-Portici, 8 km, la prima in Italia; perché i Re di Napoli, i Borbone di cattiva fama, avevano avuto all’epoca idee di progresso tecnologico. Il parroco gli consigliò di ammogliarsi, mettendo gli occhi su qualche fanciulla assidua alla Messa ed alla Comunione. Poiché Gennaro era intelligente, da operaio era diventato subito un tecnico; poté mettersi la giacchetta buona ed osare di andare a chiedere la mano di una fanciulla bellissima, alta, fluenti capelli biondi, occhi azzurri, che era molto assidua nella sua stessa chiesa.
La fanciulla dei suoi sogni era figlia del Cap. Gaudini, del disciolto Esercito Borbonico; il padre accolse cordialmente quel giovanotto dal bel portamento e dai modi signorili. Ah, vui site u giuvanotto amico d’u parroco, faticate alla ferrovia Napoli-Portici, ah il progresso, il futuro, bravo! Ma questa figlia mia non si vuole sposare, tene ‘a vocazione religiosa, se vo fa’ monaca; ma vuie mi site simpatico, c’è ‘a piccirella, e maritateve a Filumena. La sorella minore aveva anche lei gli occhi azzurri, ma non era di certo bella, piccolina,di notevole solo il naso. Quel futuro mio bisnonno era buono, troppo buono, quasi fesso. Davanti a Filomena, mani giunte in adorazione di chillo bellu giuvane, tutta presa dal sogno di maritarsi, Gennaro non ebbe la presenza di spirito di tirare fuori dal gilet l’orologio e dire: “scusate assai, mi si è fatto tardi, tengo un impegno”. No Gennaro disse: “va buò, me piglie a Filumena”.
Permettetemi di rammaricarmi in napoletano: “Se doveva fa monaca, chilla scema! Io putive esse biondo, alto, bellissimo, co’ tutte ‘e fimmene che me currieno appresso; no! Piccolo e nero!”.
Il matrimonio con Filomena fu felice e fecondo: 11 parti, 6 nati, 3 maschi e 3 femmine, di cui 2 si fecero suore. La madre morì anzitempo e la prima figlia, Francesco, restò in famiglia ad accudire i fratelli e poi il vecchio padre.
Dopo il matrimonio era successo un fatto importante: nel 1861 fu proclamata l’Unità d’Italia; le Ferrovie dello Stato cercavano tecnici per l’Officina Centrale posta a Firenze. Sono balle le canzoni: “luntane ‘e Napule nun se po’ staaa”. Gennaro fu ben contento di lasciare quella città amara, specie con lui e fece benissimo; perché si evitò un altro terribile colera, che si sarebbe ripetuto nel 1884. Con coraggio e fiducia, con la moglie Filomena ed i primi 2 figli si trasferì a Firenze. Fu un tecnico delle ferrovie molto apprezzato; da essere mandato all’Esposizione di Parigi, a presentare la macchinetta per bucare i biglietti, che lui aveva perfezionato, se non inventato. Si erano stabiliti in un quartiere allora moderno, in via Pompeo Neri. Famiglia numerosa e tutti i figli agli studi, futuri colletti bianchi; un po’ per necessità e molto per passione, Gennaro si attrezzò un’officina in soffitta ed eseguiva lavori di meccanica per conto terzi. Continuò ad andare a messa tutti i giorni, a recitare il rosario camminando, la domenica a rientrare con le paste per i nipoti; uomo di pace, il 4 novembre 1918 fine della Grande Guerra, si spense serenamente ad 81 anni, fissando il quadro della Madonna, che si era portato da Napoli.

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